L’incontro Trump-Xi? Un ‘biscotto’: Huawei in cambio di soia. Perché all’orizzonte si profila un rischio più grosso – Business Insider Italia
Let's wait and Xi. A Citigroup hanno optato per il più classico dei calembour al fine di descrivere il risultato raggiunto al vertice bilaterale fra Donald Trump e il presidente cinese, Xi Jinping, a latere del G20 di Osaka. Di fatto, un pareggio concordato spacciato per vittoria da entrambe le parti.
Ma, volendo essere onesti e realisti, un "biscotto" come non si vedeva dai tempi di Danimarca-Svezia all'Europeo del 2004. Perché giunti al punto attuale, il rischio era quello di una prospettiva lose-lose per entrambi i concorrenti, ancorché un po' di più per la Cina sul lato economico e un po' più per gli Usa su quello politico-elettorale.
Non a caso, a livello di interventi concreti, gli unici passi avanti si sono registrati sulle materie che già oggi stanno creando danni (e non pochi) alle parti in causa, da un lato l'export agricolo statunitense in crollo e dell'altro le limitazioni rispetto all'operatività di Huawei.
Detto fatto, problema superato.
Da un lato, Donald Trump con il suo ammorbidimento sulla possibilità del gigante delle telecomunicazioni cinesi di acquistare componenti americane, ha non solo di fatto smentito la retorica riguardo i rischi per la sicurezza nazionale che aveva portato alle sanzioni stesse ma anche l'ultima accusa mossa da Bloomberg, proprio alla vigilia del G20, di strettissima e ora comprovata collaborazione fra Huawei e Forze Armate cinesi.
Motivo della retromarcia? Di fatto, la necessità di scongiurare un bando operativo totale sull'export di Pechino di terre rare, almeno fino a quando Australia e produzione interna non garantiranno un minimo di resilienza.
E, soprattutto, la fine del boicottaggio cinese di prodotti agricoli statunitensi, in particolare la soia, le cui spedizioni in Cina sono crollate del 70% su base annua.
Con la campagna elettorale per le presidenziali 2020 appena entrata nel vivo, giocarsi d'emblée il Mid-West e i suoi agricolori appare mossa decisamente azzardata per la Casa Bianca.
La quale, però, dal canto suo può cantare vittoria – a parte per la mossa in stile Carramba che sorpresa! dello storico incontro in Corea del Nord – non solo per la promessa di Pechino di acquisti di beni alimentari "per un quantitativo terrificante" ma anche per l'oggettivo status di scacco in cui Xi Jinping ora si trova ufficialmente ad operare.
Se infatti Donald Trump deve tenere un occhio sempre fisso sui sondaggi e sul tasso di incidenza della guerra commerciale sul potere d'acquisto dei suoi elettori, dall'altro Pechino deve fare i conti con il fatto che da ora in poi non si scherza più. Nel senso che il livello dello scontro è arrivato al massimo possibile di effetto wrestling, quindi d'ora in avanti i pugni saranno reali e anche i danni che si infliggeranno e patiranno. E questi grafici parlano chiaro, al netto delle differenze statistiche offerte dai due contendenti. Per l'Ufficio delle dogane Usa, infatti, gli Stati Uniti hanno esportato in Cina beni e merci per 130 miliardi di dollari nel 2017, mentre le autorità cinesi parlano di 154,4 miliardi.
Prendendo per buono l'ultimo dato, oggi a Pechino resta la possibilità di operare politiche ritorsive su solo 44 miliardi di importazioni statunitensi contro i 300 miliardi che può mettere in campo Donald Trump.
Ad oggi, infatti, la Cina ha imposto tariffe sul 78,5% di ciò che acquista dagli Usa.
- Ministero delle Finanze cinese
Cosa rimane fuori dal computo e quindi si tramuta potenzialmente in arma di ricatto? Lo mostra il secondo grafico, il quale di fatto schematizza come nella "cassetta degli attrezzi" di Pechino restino tre opzioni.
- Ministero delle Finanze cinese
Alzare i dazi sui beni già tassati, aumentando gli scaglioni che oggi sono al 5%, 10% e 20% o applicare dazi su 21 dei 44 miliardi di controvalore di beni ancora senza tariffe ma scegliendo i meno strategici, come scarti di rame, cartone da imballaggio o alcuni tipi di farmaci. Oppure, infine, quella che viene definita "opzione nucleare". Quindi, dazi su tutti i 44 miliardi di beni rimanenti, fra cui come mostra il secondo grafico, pesano due comparti strategici come i circuiti integrati (Ic) e gli aeroplani, i quali da soli pesano per il 48,5% dell'import ancora non penalizzato da tariffe.
Il perché sia tale è presto detto: esattamente come accaduto agli Usa per la minaccia relativa alle terre rare, Pechino non dispone al momento di un'alternativa valida alle importazioni dagli Usa.
Almeno per quanto riguarda i velivoli, visto che sui circuiti integrati Taiwan sta dimostrandosi nei mesi un fornitore molto concorrenziale e serio, cui potrebbe unirsi l'aumento dell'import da Giappone e Corea del Sud.
Ma ecco la componente geopolitica e politica. Se infatti questi ultimi due attori, come ha mostrato proprio quanto accaduto nella due giorni di Osaka, stanno decisamente valutando i pro e i contro di una politica più "indipendente" dall'influenza statunitense, la questione degli aeroplani vede l'americana Boeing pesare per il 57% dell'import totale cinese. L'alternativa sarebbe quella di rivolgersi all'europea Airbus in maniera più strutturale, come mostrato dalla mega-commessa ottenuta da Emmanuel Macron nel corso della visita di Xi Jinping a Parigi a fine marzo ma – ovviamente – le implicazioni di una mossa tale sarebbero enormi.
Non ultimo per la questione legata alla Nato che, ad esempio, sta già portando ai ferri corti i rapporti fra Washington e Ankara per l'acquisto turco di batterie russe S-400. Ma a raffreddare le reazioni entusiaste dei mercati di inizio settimana, soprattutto quelli del Dragone schizzati in orbita, ci hanno pensato nell'arco di poche ore anche gli ultimi dati macro arrivati proprio dalla Cina.
E, per una volta, preoccupantemente concordanti.
Questi due grafici mostrano infatti come sia il tracciatore manifatturiero ufficiale Nsb che quello non ufficiale (ma, quasi sempre, più affidabile, non fosse altro perché traccia piccole e medie imprese e non grandi conglomerati a controllo statale diretto e cosiddette Sme) Caixin parlino la stessa lingua: contrazione.
- Nbs
Il primo, infatti, a giugno è rimasto invariato a 49,4 contro le attese di un aumento sopra la linea di demarcazione di 50, mentre il secondo è calato dal 50,2 di maggio al 49,4 di giugno, di fatto entrando in territorio recessivo per il comparto manifatturiero e segnando la seconda lettura più bassa in assoluto, dopo quella del giugno 2016.
- Markit/Caixin
Insomma, il rallentamento non solo c'è in Cina ma è anche netto.
Più netto del previsto. E questo porta alle due questione fondamentali, sintetizzate in questi due grafici. Il primo mostra come il rallentamento cinese sia soltanto un proxy di quello mondiale, aggravato dal conflitto commerciale in atto: in aggregato, infatti, la formazione del cosiddetto capitale fisso privato (CapEx o investimenti in assets fissi) è letteralmente crollata, passando dal più 4,7% su base annua del primo trimestre 2018 al più 2,8% del primo trimestre di quest'anno nel gruppo di Paesi del G4 e dei Brics.
- Ceic/Haver Analytics/Morgan Stanley/Fmi
Insomma, un dato che sembrerebbe confermare la necessità di stimolo e l'intervento muscolare delle Banche centrali, come lasciato ampiamente intendere sia dalla Fed che dalla Bce. Ma se appena concluso il G20, sia la Bri nel suo report annuale sia l'Ocse con il suo segretario generale, Angel Gurria, hanno messo in guardia dal peggioramento oltre le attese della situazione e dei limiti dell'interventismo monetario ("Le Banche centrali hanno finito le loro munizione", ha tagliato corto Gurria), l'ultimo grafico mostra il paradossale motivo per cui il mercato, forse, ha festeggiato pavlovianamente il pareggio senza infortunati, né ammoniti fra i diffidati avvenuto a Osaka.
- Bloomberg
Al netto di bond con un rendimento negativo che a livello globale hanno superato il controvalore record di 13 trilioni di dollari, oggi la duration – ovvero la misura della sensibilità ai cambiamenti sui tassi di interesse – nell'universo obbligazionario è anch'essa al top assoluto, 8,32 anni.
Cosa significa, in parole povere? Che in contemporanea a questa dinamica, sottotraccia sta creandosene un'altra strettamente correlata: è in formazione il più mostruoso – ancorché, per ora, solo potenziale e teorico – shock sul VaR della storia.
Cosa sia il VaR (Value-At-Risk) è relativamente semplice, si tratta del valore di iscrizione a bilancio di un asset, affinché questo sia profittevole o, nella parte inferiore della curva di iscrizione, non porti perdite eccessive a chi lo detiene. Insomma, è la forchetta di prezzo/rendimento (nel caso del reddito fisso) entro cui un'azienda può detenere senza pensieri eccessivi una security nel suo stato patrimoniale: per chi ha visto il film Margin call, si tratta della radice di tutti i mali dell'azienda guidata da Jeremy Irons. Ad oggi, la variazione DV01 (detta in maniera grezza, l'indice che misura perdita o guadagno di una posizione in base alla variazione parallela di un punto base sulla curva dei rendimenti) potrebbe arrivare a 24 miliardi di dollari.
Tradotto e messo in prospettiva, un solo 1% di aumento sui rendimenti porterebbe con sé una perdita potenziale a livello globale di 2,4 trilioni di dollari, una cifra capace da sola di scatenare una nuova crisi finanziaria. Un nuovo 2008. Ma in peggio.
Insomma, le cose vanno male ma, se migliorassero (bloccando stimoli e tagli dei tassi e, magari, facendo intravedere nuova normalizzazione), potrebbero andare peggio. Il classico circolo vizioso, il cane che si morde la coda, il morphing da crisi economico-recessiva a nuovamente finanziaria. I tassi non possono muoversi, se non ancora più al ribasso. Ma durerà per sempre? "Non ho fretta di chiudere un accordo con la Cina", ha dichiarato Donald Trump alla stampa prima di lasciare la Corea. E la cosa, alla luce della realtà di mercato, non stupisce affatto.
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